Latvian adventure si trasferisce in Lussemburgo

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Due settimane fa ho aperto la porta di una casa nuova ad una vita nuova, in un Paese nuovo, con un coinquilino nuovo.

Due mesi fa io e l’Alfista tornavamo dall’Italia alla Lettonia, non sapendo bene cosa la vita ci avrebbe riservato. Da lì a due giorni l’Alfista ricevette finalmente la chiamata dal Lussemburgo in cui non speravamo più, due ore prima del mio appuntamento fissato per la firma del contratto del nuovo appartamento a Riga, contratto che stracciai due minuti prima di incontrare il padrone di casa. In due settimane da quel momento, sarei stata all’ospedale ricevendo chiamate da numeri lussemburghesi su un cellulare morto fra le attese del pronto soccorso. Tra le corsie dell’ospedale, febbre e babuškas ho inviato la caparra per i nostri 35 mq di Céssange, a scatola chiusa. Nel corso dei venti giorni successivi avremmo venduto le nostre amate bici e la macchina: l’Alfista si trasformò così in un Alfista senz’Alfa.

In due settimane abbiamo fatto due viaggi all’Ikea in Belgio, abbiamo due volte litigato, abbiamo due volte fatto pace e siamo stati felici almeno due volte al giorno.

Il letto, il bagno, la scrivania, l’armadio e il comò si dividono per due. Il cibo, i vestiti, le scarpe e la corrispondenza si moltiplicano per due.

Sì, anche i conti si dividono.

Sì, anche i conti si dividono.

Siamo in due, siamo in Lussemburgo, e stiamo imparando a convivere.

It’s – Almost – Summer Nights

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Succede che l’altra sera io abbia la smania totale di usare la mia bici nuova nuova. Due giorni senza pioggia con ben 13 gradi è un lusso da non sprecare qui in Lettonia. Dopo aver sopravvissuto ad autisti ubriachi (è lunedì: capiamoli) e ciclisti che non riescono a stare in equilibrio mentre pedalano, riesco finalmente a raggiungere la pista ciclabile che inizia da Kr. Valdemāra iela e finisce a Mezaparks.

Sono già le 21,30 ma il giorno non è scuro, la mente non è stanca, bensì ripulita dai pensieri superflui. Una decina di chilometri pedalando ed iniziano le catarsi. Vedo il cielo, rosso e bellissimo, e capisco che le giornate infinite come queste mi angosciano, perché io non la voglio una cosa come un giorno infinito ed indefinito.

L’estate è da temere ben più dell’inverno: ti vizia, regalandoti fragole e zuppe fredde al kefir. Ti soggioga, facendoti indossare gli occhiali da sole, tranne dall’una all’una e trenta di notte. Ti seduce in riva al mare: inganna persino il tempo, passi senza accorgertene tutte le tue ore con lei. E alla fine ti abbandona, così, al limite delle tue forze, perché l’estate non lascia spazio al riposo.

Il sole estivo non si pone mai all’orizzonte. Semplicemente, ad un certo punto, decide di andarsene, ed è subito inverno. E capisco di sentirmi come quel sole che vedo sul lago a Mezaparks, pronto a creare spettacoli, ma ben deciso e conscio che quello non sarà il suo spazio per sempre. Capisco che non posso esserci per sempre, io, in Lettonia.

U.S.A. (& GETTA)

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San Francisco, Los Angeles, San Diego e tutte le varie città ed attività che – non so come – sono riuscita ad incastrarci in mezzo,   hanno accartocciato le mie povere membra per poi sedercisi sopra e farne un ammasso di… rottami?

Questo viaggio inizia in un freddissimo venerdì notte rīdzinieko (righense?), alle 3 a.m. quando il mio capo decide di chiamarmi a sorpresa dal Canada.

“CANCELLA TUTTO, NON TI MANDO PIU’ A FRANCOFORTE. TU VAI IN CALIFORNIA.”

“What. Why. California is better than Germany. Okay. Ronf.”

Quello non è stato nient’altro che l’inizio di una lunga serie di sfortunati eventi.

La mattina del 22 Marzo un estremamente assonnato quanto sovreccitato e logorroico Alfista mi accompagna all’aeroporto sotto la neve, mi augura buon viaggio con un bacino e si raccomanda affinché io faccia tanto car spotting. Io nemmeno mi rendo conto di quello che sta per succedere, tant’è che decido di perdere il passaporto e la carta d’imbarco, per accaparrarmi l’ultimo yogurt ai mirtilli e muesli. Ho battuto il mio record personale sui 5k con tanto di trolley e borsone addosso. All’aeroporto di Amsterdam. Lo steward faceva il tifo per me, mentre le hostess minacciavano di lasciarmi a terra. Insomma, il dito medio alzato durante il body scan è del tutto meritato.

Atterro a SF e dopo 25 minuti di domande ai customs vado a ritirare il mio bellissimo Mustang

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Silicon Valley, San José, Santa Cruz, Monterey, Carmel-by-the-sea, Los Padres, Morro Bay, San Luìs Obispo, Santa Barbara in 4 giorni. Sulla California-1. Vista oceano. La parte migliore, motel esclusi. Con il Mustang decappottato, of course.

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Arrivo a Los Angeles e penso – ma cosa sono ‘sti quattro grattacieli messi in croce? Lavoro. Mi ammalo. Vado allo Urgent Care più vicino. 25 miglia, guidando e piangendo, mentre le mie orecchie scoppiano e la mia voce è inesistente. Investo 400 bucks nel sistema sanitario messamericano (mess nel senso di messicano, non si voglia mai dire che sia un mess) e vinco antibiotici per il resto della mia vacanza-lavoro ormai diventata una vacanza-malattiainfettiva-lavoro.

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San Diego mi fa sentire che sto bene, ha un’aria calma e  familiare, delle belle luci, artificiali sulla 5th av. e naturali, al tramonto nella San Diego Bay. Pacific Beach mi regala la grandezza dell’oceano per tre mattine di seguito ed una chiacchierata con un signore che passava di là.

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La sintesi della sintesi della sintesi è che, se avessi una mente matematica, il bilancio sarebbe in pari. Magari tendente al negativo. Il problema è che non ho mai visto un cielo così grande, una natura così imponente e che la mia libertà ribelle non si è mai sbracciata così tanto. E che gli Americani a me fan tanto ridere. Ma proprio tanto tanto tanto. Perché in America tutto è più grande.

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Da Riga: Silvia

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Grazie ad Amiche di Fuso per avermi concesso a Riga e a me in piccolo spazio! Arrivo in ritardo, ma ho tempo solo ora alle 5 del mattino – cheers, jet lag!

Amiche di fuso

Oggi ospitiamo Silvia dai Paesi Baltici che si racconta nel suo blog  Estonian Adventure: ha scelto Riga per il suo espatrio e si sente tutto il suo amore per questa città. 

Da che ho memoria, ho sempre avuto un’immagine di me proiettata al di fuori dei confini italiani. Costruire una vita in un Paese che non fosse l’Italia è sempre stato il desiderio verso cui tendevo dalla più giovane età.

A 14 anni, nel 2005, mi sono iscritta al liceo linguistico, uno dei pochi in Italia ad offrire il russo come una delle tre lingue straniere obbligatorie. Volevo iniziare a studiarlo già dal primo anno, ma non abbastanza ragazzini a quell’età erano della stessa opinione. Fui costretta ad iniziarlo solo a 16 anni.

In quel periodo fiorì in me il seme di un amore per la Russia, ineguagliabile alla generale attrazione e curiosità per l’ignoto che provavo verso qualsiasi…

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Los Angeles.

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È da tanto che non ci sono perché il tempo l’ho passato a vivere, a riempirmi le giornate di riunioni stressanti, appuntamenti interessanti, cene romanticheggianti, party scoppiettanti ed amici, sempre tanti. 

Ne ho le bozze piene del tutto di cui sopra… Ma magari mi serviva una seduta di pedicure nel Fashion District di Los Angeles, mentre il resto del mondo a me conosciuto dorme, per sbloccarmi. 

  

A volte basta così poco, ma quando sono felice e la vita straripa, il blog mi va stretto. Un po’ come quel paio di jeans che non metti dopo le vacanze di Pasqua, perché si sa che andranno a stringere in un punto scomodo, ma vuoi mettere il piacere del barbecue di Pasquetta?

Ora mando una cartolina a Riga da Los Angeles, fissando la mia felicità di qui e ora. Abbracci e baci. Non vedo l’ora di rivederti e raccontarti tutto. Tanto di bello, un tantino di brutto.

SABATO SERA DA SFIGATI

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Penso che una bullet list si addica meglio alla lunga serie di sfortunati eventi che si sono susseguiti ieri sera.

O, voi che leggete: accomodatevi, ridete di me e io riderò con voi.

  • h. 21.30 BLIND DATE con un tipo, ufficiale militare. Super cool a parole, mi sentivo veramente ispirata. Per fortuna che il mio cervello ha proposto di andare al cinema, giusto così, per garanzia: al cinema non è necessario guardare qualcuno negli occhi né intrattenere una conversazione.
  • h 21.31 REPULSIONE… Vorrei scappare via a gambe levate. Fare finta di non essere me, di essere straniera e di non capire la lingua. Peccato che queste cose lui le sappia già e che abbia già comprato i biglietti. Tiro fuori i soldi dal portafoglio per il mio biglietto. “no, no, you pay for my drink later” “no, no I pay for my ticket now”
  • h. 21:45 FINALMENTE AL BUIO. Il film faceva schifo, il peggiore che io abbia mai visto negli ultimi 5 anni, sia al cinema che no. Le dramacommedie russe che guardo al mattino in tv sono 10 volte meglio di American Heist. E a me Adrien Brody piace.
  • 2 ore di PANICO e NOIA in cui scrivevo alla mia amica Liga di voler scappare dal cinema perché, se già il film pessimo non fosse abbastanza, il tipo cercava di fare il simpaticone con me e rideva delle sue stesse battute. Anche io ridevo, per non piangere e perché per fortuna avevo un bicchiere di Lambrusco.
  • h. 23:35 LUCI IN SALA cerco di evitare il contatto visivo col tipo il più possibile. Gli dico che me ne devo andare velocemente, la mia amica mi aspetta. “I’ll come with you” “NO. THANKS.” “Where are you going?” “I don’t know. Bye”
  • h. 00 Al Pulkvedis un Messicano esordisce con un “hola guapa” e mi fa un baciamano di altri tempi. Lo fulmino con lo sguardo. Lui scappa.
  • h. 01:25 Scivolo sul ghiaccio e cado sulla chiappa destra. Secondo i miei calcoli un ematoma di circa 10 cm dovrebbe comparire sulla superficie del gluteus maximus domani sera.
  • h. 01,30 IRISH PUB un gruppo di 5 finlandesi over 60 visibilmente annoiati vuole assolutamente noi, per un po’ di compagnia e qualche drink. Rifiutiamo con gentilezza. Poi con fermezza. Poi chiediamo una mano a due ragazzi seduti vicino a noi: non è mica che potete dire qualcosa a questi maniaci??? “No. You can sort your problems by yourself” “Assholes. Nahui”
  • h.2,45 OK LIGA, CHIAMIAMO IL TAXI. E andiamo a casa prima che un meteorite cada sulle nostre teste. Nel frattempo, andiamo all’Hesburger. Alle 3,30 scopriamo che la tassista si è persa perché è il suo primo giorno di lavoro. Dobbiamo raggiungerla e camminare per circa 400m.
  • h. 3,45 VEDIAMO LA TASSISTA. Due ragazzi all’angolo si sbracciano per chiederci indicazioni per un posto che si trova sulla strada verso casa. Nonostante la serata dimmmerda mi sento di buon cuore ed offro un taxi sharing a questi due, un Canadese ed un Texano in viaggio. La tassista si perde di nuovo. I tipi ci invitano ad andare con loro. Why not. Però il bar che hanno scelto loro fa schifo sul serio. Meglio tornare nella Old Town ed andare all’Ala Bars.
  • dalle 4 alle 6 qualcosa sembra essersi aggiustato nell’universo mio e di Liga, passiamo un paio d’ore a chiacchierare animatamente con questi tipi, una conversazione stimolante in cui abbiamo apprezzato anche quanto l’Americano bullizzasse il Canadese. Hanno provato a provarci, ma non ci sono riusciti. AH. AH. AH. (per fortuna).
  • Alle 6 un tipo lettone inizia a deprecare me e Liga dicendo che siamo delle povere disgraziate che vendono il loro corpo a degli stranieri in cambio di un paio di birre, sperando che poi loro ci sposeranno e ci porteranno nei loro Paesi d’origine e sia io che lei invece dovremmo rimanere in Lettonia a produrre figliolanza lettone purosangue.

Questi sono i fatti, assolutamente non romanzati. Aspetto commenti, scatenate l’inferno! 🙂

Neve di sfide.

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LA NEVE, CHE BELLEZZA! IO ADORO LA NEVE, PER ME UN INVERNO SENZA NEVE NON HA SENSO. NON SAI QUANTO TI INVIDIO, TU HAI LA NEVE!

La frase standard pronunciata dagli italiani in patria, quando comunico che qui sta nevicando.

Sì, la neve in sé è bellissima e per niente problematica, sono d’accordo.

Endla. Estonia.

 

 

Quello che non sanno è che la neve si posa sulle strade, trasformandosi in ghiaccio poi e in acqua più tardi.

Quello che non sanno è che bisogna immedesimarsi nella suola delle proprie scarpe ogni mattina e cercare di capire le condizioni del cemento attraverso il vetro della tua finestra di casa. Le scarpe non le abbini al tuo vestito, le abbini alle condizioni stradali.

Quello che non sanno è che il tuo sguardo deve fissare il cemento e il tuo cervello pianificare attentamente ogni prossimo passo, attraverso un’equazione difficilissima che include le condizioni della pavimentazione, il livello di neve/ghiaccio/acqua di quei 30 cm, una rapida ricerca nell’archivio della tua memoria per ricordare se ci sono buche rischiose o tombini scivolosi, un’essenziale valutazione del rischio di aumentare la velocità del proprio passo se si è in ritardo.

Quello che non sanno è che non c’è nulla di eccezionale nel vedere donne spiccare e camminare su tacchi 12: il loro cervello deve risolvere un’equazione dello stesso livello che risulterà in caviglie distrutte nel giro di qualche anno. Non provare neanche a chiederti come facciano le babushkas con il bastone in una mano e dieci chili di spesa nell’altra.

Quello che non sanno è che non puoi guardare la faccia delle persone… chissà quante volte avrò camminato accanto ad uno dei possibili grandi amori della mia vita ma non lo saprò mai, perché quando nevica non pensi all’amore. La priorità è quella di non spaccarti una gamba.

Quello che non sanno è che tutto ciò ti fa entrare in una specie di trance che rilassa ed abitua le tue gambe ad una nuova condizione: non quella di camminare sul ghiaccio, ma di scivolarci soavemente sopra. Quando impari a scivolare le tue spalle saranno ormai incurvate e la tensione accumulata fra le tue cervicali.

Quello che non sanno è che è altamente probabile mettere un piede in fallo, sdrucciolare, aggrapparsi ad un palo e salvarsi in corner così come cadere rovinosamente ed imprecare nel mezzo della folla, senza che nessuno batta ciglio, se la rida sotto i baffi né ti aiuti a risollevarti.

Quello che non sanno è che Riga si trasformerà, in ultimo, in una piscina a cielo aperto, in una Venezia senza puzza di pesce. E tu ti trasformerai in una rana, saltando pozzanghere, creando percorsi improbabili per raggiungere la tua destinazione con l’unico fine di evitare di attraversare incroci divenuti acquitrini. Preparati a sgrassare fango dai tuoi vestiti, ché gli pneumatici di macchine e camion non hanno pietà per chi è su due piedi: splashano e sbeffeggiano chi cammina troppo vicino al margine della carreggiata.

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Rīga. Centro città.

 

Potrei scrivere che dopo neve, ghiaccio e acqua una fase quattro c’è, e prevede lo spuntare del sole, che asciuga le strade, ristora la luce ed i colori: basta apprendere l’arte dell’attendere e del sopravvivere nel frattempo.

Io, da brav’anima senza pace, incapace di proiettare una vita nel futuro prossimo, scrivo ciò che quelli non sanno: ognuno di questi giorni sembra infinito. Quando devi re imparare a camminare, ogni giorno sembra infinito, ogni giorno ti sfida e ti sbeffeggia. Non c’è spazio per nient’altro se non per l’emisfero destro del tuo cervello che invia segnali alla tua gamba sinistra e per l’emisfero sinistro che mette in funzione la tua gamba destra. Non c’è spazio per nient’altro se non per indossare tre paia di calzini invece che due, riconsiderare l’importanza dei tuoi alluci che più volte ti salvano dalla rovina, essere grati a coloro che svolgono l’increscioso compito di spargere il sale sulle strade per arrotondare le proprie pensioni di 50 euro e pensare a quanto ingiusto questo sia.

Quello che non sanno è che tutto il corpo cerca di stare in equilibrio e la tua forza verte e si con-centra nell’ombelico. Che molte tue scarpe non ce la faranno a sopravvivere all’inverno e quelle che ce la faranno avranno mille cicatrici nelle loro suole. Che i calzolai ormai non esistono più e che allora tanto vale buttarle via.

Nel frattempo ti avranno concesso di camminare per qualche settimana o mese, opponendo un po’ di resistenza iniziale ma, alla fine, facendosi plasmare dalla pianta del tuo piede e dalla velocità del tuo passo.

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Le scarpe, la neve, il ghiaccio e l’acqua non sono fittizi nonostante abbiano la pretesa di essere metafore.

E il camminare mi porterà in California a marzo.

2015 – LIBERTA’, COSTANZA E PERSEVERANZA.

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Il 31, la fine, per me ha sempre avuto più significato del 1, dell’inizio: solo un paio di anni fa mi sono resa conto che la parola capodanno si riferisse al primo giorno dell’anno nuovo e non all’ultimo giorno dell’anno vecchio. Ho la mania di cercare di capire l’anno nuovo attraverso l’anno vecchio, di cercare indizi del futuro nel passato, di cogliere segni casuali di un presente non ancora manifestato. Il mio cervello e la mia anima non hanno ancora effettuato l’update 2015, quel 5 non mi suona ancora. Scrivo mail e note, ma l’ultimo numero che esce dalla penna è sempre il 4. Ancora non so chi voglio essere e cosa voglio fare di me stessa nel 2015.

Ultimamente sono in cerca di segni dall’universo, visto che dentro di me non trovo che il vuoto. Mi sento vittima di una vita troppo frenetica, di ritmi troppo sbagliati, in mezzo a gente che viene e se ne va, sento le energie dileguarsi verso altri porti e nothing is left for my own [sake].

Il mio dialogo interiore intento alla costruzione di buoni nuovi propositi, come la società ci insegna di fare, non ha dato alcun risultato, se non quello di sottolineare le mancanze.

Manco di costanza nell’amare me stessa, pullulo di veleno interno e lo sento scorrere. Pullulo di negatività e pullulo di pensieri. Pullulo di disordine e di paure. La mia bussola interna ha smesso di funzionare, mi sento persa. Intuisco il mio corpo risentirne, ma non lo capisco, non mi capisco. Mi sento un granulo di polvere in una tempesta. Non vedo altra soluzione se non nel darmi tempo, abbandonarmi alla mia attività onirica alquanto fuori norma, concedermi alla pigrizia ed al silenzio, dipingermi di invisibilità e lasciare che la tristezza venga assorbita dai miei tessuti, lasciarmi penetrare dalla sua umidità fino al midollo.

Un amico incontrato ieri per caso mi ha fatto notare di quanto io tenda sempre a pensare di non essere abbastanza, di non fare mai abbastanza e forse questo mi ha ispirato nel buon proposito di ridurre i miei motori al minimo, di vivere più per me e meno per gli altri; di capire più me stessa che non gli altri. Senza aver paura di quello che troverò in me stessa, senza aver paura di deludere gli altri.

Ho passato tutto il 2012, il 2013 e gran parte del 2014 ad accettare una malattia che si era impossessata di me, l’epilessia. Il 31 mattina l’allarme per prendere le medicine, o, come lo chiamo io, il veleno, non è suonato. Mi auguro che il 2015 sia l’anno buono per smettere di avvelenare il mio corpo ogni 12 ore. Probabilmente l’epilessia ha sempre fatto parte di me e ne incontro la logica nel fatto che io tenda ad ultra controllare la mia esistenza: la mia paura della malattia e il veleno che tenta di soffocarla sono causa e conseguenza della mia paura di vivere. Eppure l’epilessia fa parte di me. E la paura è un sentimento dal quale è impossibile rifuggire; la paura è la natura animale, è l’istinto di sopravvivenza. Il veleno si può evitare. Le medicine, i veleni, sono una scelta. Io decido di smettere, decido di liberarmene.

Un rischio, un pericolo. Così dicono.

Io decido di saltare oltre la siepe. Sfidarmi e non fidarmi [più] di qualcosa che mi viene prescritto come necessario.

Auguro a tutti un 2015 fatto di libertà [dalle paure], costanza [nell’ascolto del proprio corpo] e, nel caso, perseveranza [nel volersi e farsi del bene]. Ora metto un freno i pensieri ed esco a vivere.

 

Di congestioni nasali e rimedi della nonna

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Le temperature freddine, il clima natalizio e le giornate cortissime non si sono limitate a rinsavire il mio amore per l’inverno e a farmi goduriosamente temporeggiare sotto il piumone. NO. Quest’inverno ha portato, insieme alle sue dolci abitudini, anche un bel raffreddore potente. Magari è colpa della Gerda che ci ha fatto studiare tutti i vocaboli lettoni utili per andare all’ospedale e spiegare al dottore i nostri disturbi intestinali. Magari è colpa mia, quando domenica scorsa mi sono scapicollata sulla pista di pattinaggio sul ghiaccio, dopo essermi spavaldamente spogliata del cappotto mentre il termometro segnava una temperatura quasi mite (-1).

Mi sono ammalata. Es esmu slima. Lo sono stata per tutta la settimana e lo scorso weekend. Mi sono stoicamente rifiutata di assumere farmaci, così come faccio da almeno tre anni. Apprezzo il fatto che qui le aptiekas si avvicinano molto di più al nostro concetto di erboristeria che non al nostro concetto di farmacia; apprezzo il poter avere l’alternativa naturale, dagli sciroppi agli unguenti, passando per creme e cosmetici. In ogni aptieka si trovano millemila tipi di veselība teja, i tè della salute: appena sento un acciacchino da qualche parte, un paio di te destinati alla funzione mi rimettono subito in sesto.

HOWEVER, questo mio principio di sinusite mi ha fatto scoprire il mondo dei rimedi delle nonne lettoni. Il mio collega mi ha consigliato un intruglio di aglio, miele, zenzero e limone. Bevi acqua calda. Mangia aglio, spellalo e inghiottilo crudo. Nient’altro.

“Il tuo corpo è avvelenato, depuralo non mangiando nulla. Ah, e appenditi qualche spicchio d’aglio al collo, non si sa mai. Il tuo corpo ha già abbastanza energie negative, non devi lasciarne entrare altre. Ah, e taglia quattro o cinque agli interi, mettili su un piatto e ripeti la stessa operazione per tutte le stanze della casa, due volte al giorno. Serve ad assorbire le energie negative”

La mia coinquilina tedesca si è volontariamente offerta di comprare un paio di bottiglie di Riga Balzams per sabato sera, a puro scopo terapeutico. Si, e mio nonno è Garibaldi.

Mi sono attenuta al brodino di verdure con pastina e parmigiano grattugiato. Sauna. Millemila té e infusi. Il divano è stato il mio migliore amico e oggi, dopo 7 giorni, sono tornata ad una vita degna di questo nome. Complice un cielo porno e una giornata soleggiata (sì, insomma, un paio d’ore di luce in cui si è effettivamente visto il sole), sono andata in giro per mercatini di Natale, ho speso soldi in formaggio, dolcetti e calze di lana 😀

Mercatini Di Natale alla Doma Laukums