Di congestioni nasali e rimedi della nonna

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Le temperature freddine, il clima natalizio e le giornate cortissime non si sono limitate a rinsavire il mio amore per l’inverno e a farmi goduriosamente temporeggiare sotto il piumone. NO. Quest’inverno ha portato, insieme alle sue dolci abitudini, anche un bel raffreddore potente. Magari è colpa della Gerda che ci ha fatto studiare tutti i vocaboli lettoni utili per andare all’ospedale e spiegare al dottore i nostri disturbi intestinali. Magari è colpa mia, quando domenica scorsa mi sono scapicollata sulla pista di pattinaggio sul ghiaccio, dopo essermi spavaldamente spogliata del cappotto mentre il termometro segnava una temperatura quasi mite (-1).

Mi sono ammalata. Es esmu slima. Lo sono stata per tutta la settimana e lo scorso weekend. Mi sono stoicamente rifiutata di assumere farmaci, così come faccio da almeno tre anni. Apprezzo il fatto che qui le aptiekas si avvicinano molto di più al nostro concetto di erboristeria che non al nostro concetto di farmacia; apprezzo il poter avere l’alternativa naturale, dagli sciroppi agli unguenti, passando per creme e cosmetici. In ogni aptieka si trovano millemila tipi di veselība teja, i tè della salute: appena sento un acciacchino da qualche parte, un paio di te destinati alla funzione mi rimettono subito in sesto.

HOWEVER, questo mio principio di sinusite mi ha fatto scoprire il mondo dei rimedi delle nonne lettoni. Il mio collega mi ha consigliato un intruglio di aglio, miele, zenzero e limone. Bevi acqua calda. Mangia aglio, spellalo e inghiottilo crudo. Nient’altro.

“Il tuo corpo è avvelenato, depuralo non mangiando nulla. Ah, e appenditi qualche spicchio d’aglio al collo, non si sa mai. Il tuo corpo ha già abbastanza energie negative, non devi lasciarne entrare altre. Ah, e taglia quattro o cinque agli interi, mettili su un piatto e ripeti la stessa operazione per tutte le stanze della casa, due volte al giorno. Serve ad assorbire le energie negative”

La mia coinquilina tedesca si è volontariamente offerta di comprare un paio di bottiglie di Riga Balzams per sabato sera, a puro scopo terapeutico. Si, e mio nonno è Garibaldi.

Mi sono attenuta al brodino di verdure con pastina e parmigiano grattugiato. Sauna. Millemila té e infusi. Il divano è stato il mio migliore amico e oggi, dopo 7 giorni, sono tornata ad una vita degna di questo nome. Complice un cielo porno e una giornata soleggiata (sì, insomma, un paio d’ore di luce in cui si è effettivamente visto il sole), sono andata in giro per mercatini di Natale, ho speso soldi in formaggio, dolcetti e calze di lana 😀

Mercatini Di Natale alla Doma Laukums

DAY 8 – GERMANS SAY “FAHRT” WAY TOO OFTEN

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Il mattino seguente mi sento già una crucca DOC. Mi battezzo e autoconferisco il titolo durante la mia colazione. Successivamente mi autocongratulo e brindo a me stessa con il mio vicino di tavolo, uno scozzese in kilt.

Just a tiny brunch, German style.

In qualche modo riesco ad alzarmi senza rotolare e ad andare a farmi un giro per Colonia, nonostante i livelli di colesterolo nel sangue decisamente raddoppiati. Altro non trovo che fast food e negozi di vestiti… Mi lascio quasi tentare dalla splendida svendita di DIRNDL: la mia immaginazione già vedeva me in dirndl e il ragazzo scosseze di cui sopra scorrazzare felici nelle praterie nei nostri outfit discutibili ma decisamente in linea con il nostro stato di insanità mentale. Insomma, io e lui, il mio dirndl e il suo kilt, anime gemelle finché morte non ci separi.

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Dirndl me 🙂

Dopo questo breve ma intensissimo trip mentale, scrollo la testa dai miei pensieri alla Heidi-ti-sorridono-i-monti e torno alla realtà dura e cruda: affrontare la popolazione tedesca dentro la giungla di un Primark. Niente gentilezza né sorrisini, bensì donne e uomini di tutte le età pronti a combattere la calca e i nemici che spuntano dagli scaffali meticolosamente posti a labirinto. Esco vittoriosa dal Primark dopo due ore, alleggerita di un centinaio di euro ma col guardaroba invernale pronto.

La serata scivola via con tre ore passate al telefono con Floris, un amico Erasmus, che pianifica la mia gita del giorno successivo tra Utrecht e Amsterdam, cumulando tutti gli sconti e i coupon rintracciabili su siti sia olandesi che tedeschi e scrivendomi la mail più dettagliata e carina che io abbia mai ricevuto (si vede che studia giornalismo) 😀

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this is just the first page of his email! In the second page – phone numbers In the third page – vocabulary of useful Dutch words 🙂

 

FAHRT GEHEN!!!!

DAY 3 – BURSA CRAWLING

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Il giorno prima della mia partenza, Emin aveva dichiarato di avere un programma inflessibile e dettagliato come le istruzioni di un mobile IKEA, inclusivo di ore e modalità di pasti e sonno.

Con mio grande sollievo ed un pizzico di sua vergogna, ha ammesso che un piano non esisteva assolutamente e che l’organizzazione del nostro On The Road in Turchia avveniva, effettivamente, alla maniera turca. Le parole magiche dette da Emin inaugurarono perfettamente la nostra Turkish Adventure “Oğlum, don’t worry, everything will be just PERFECT, now we are together! Let’s have a cigarette now, ya, we are in Turkey and you have to smoke like a Turkish. Do you understand me? BE TURKISH”.

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La domenica decidiamo di svegliarci con calma ed andare a esplorare la provincia di Bursa, trascinando un Berkay hangoverato. Mi portano a Gölyazıun’isoletta all’interno di un lago, collegata alla terra ferma da un ponticello in cui la nostra macchina e un’altra fanno amicizia, rigandosi vicendevolmente. Emin impreca perché lo dovrà dire a suo padre, il quale, funny thing, lavora alla motorizzazione e gli farà il solito pippone sulla sua incapacità di guidare.

Andiamo ad esplorare l’isola. Io punto il dito su case a caso ed affermo una dozzina di volte che lì, proprio quella lì, rosa, con balcone sul tetto e colonne corinzie all’ingresso, sarà la mia prossima dimora. Da lì, da quel balcone, lavorerò nelle sere d’estate, sorseggiando tè turco.

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E’ giornata di mercato del pesce, della carne, della frutta e della verdura. Delle signore dai corpi di forma a mela cotogna sorridono e stendono pasta sfoglia per i Börek, mentre si sbracciano per attirarci ed offrirci un pranzetto. Ci fanno accomodare su un tavolo di quelli da picnic (occupato ABUSIVAMENTE, se proprio vogliamo usare un parolone che farà gridare allo scandalo) e stendono una tovaglia. Non ci è data possibilità di scelta e ci portano dei Börek a loro piacimento, con ripieni di patate, melanzane e formaggio. Adoro il non dover prendere decisioni in vacanza. Emin schifa i börek alle melanzane e li da ad un gatto. Berkay se la ride perché due signore stanno litigando, mattarelli in mano, incolpandosi l’un l’altra di furto di clientela. Sento forte il desiderio di imparare il turco; nel frattempo, mi limito a divorarne la cucina.

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Lasciamo Gölyazı per Mudanya. Fiondo a bagnarmi i piedi nel mare, finalmente mosso, con onde che non vedevo dall’ultima volta in cui ho visto l’oceano a Fuerteventura. I miei ventitré diventano all’improvviso venti di meno…E se ne avessi avuti venti di meno, mi sarei gettata in acqua con i vestiti. Mi trascinano via, in preda ad un delirio di onnipotenza: vogliono andare a bere il tè in un posto che non ricordo come si chiami, ma è a cavallo di un fiumiciattolo e mi ricorda un po’ Venezia. Evidentemente sovraffollato e disorganizzato, ma questo background a me piace eccome.

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“Oğlum, Turkish people are good only on two things: eating. And getting married with foreign people.”

DAY 2 – BACK TO ERASMUS DAYS

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Una giornata normale fra amici che non si vedono da tempo: arrotolati nella nostra stessa pigrizia, con tanta voglia di stare assieme e sciogliere le nostre lingue in una miriade di chiacchiere, per catching up con gli ultimi eventi della nostra vita.

So far, in Turchia, ho capito funzioni così:

sei triste? Mangia. Sei felice? Mangia! Sei ammalato? KEBAB! Ti senti un po’ giù di morale? BURSA KEBAB! Colazione? Alla turca. Ergo, il cibo è la risposta a qualsiasi domanda.

Ece, Alev, Emin ed io ci avviamo verso uno dei bar più chic di Görükle, il distretto dedicato principalmente al campus dell’Università di Bursa.

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“English Breakfast, you suck!”

Parliamo di religione, scelte morali e libertà individuali. Io mi sento molto a mio agio fra tre musulmani praticanti della mia stessa età. Le ragazze non mi giudicano né mi invidiano. In turco dicono ad Emin che piaccio molto a loro, perché sono una persona tranquilla, sicura e positiva, capace di prendere delle posizioni e di spiegarne il perché. Piaccio a loro perché lo stereotipo di ragazza europea che hanno in mente, è l’opposto rispetto alla persona in carne ed ossa che hanno di fronte a loro. Mi fanno giurare di tornare presto a Bursa e promettono di imparare l’inglese per poter passare più tempo con me a chiacchierare di “cose da donne”, senza Emin-mediatore-traduttore. Ricorderò per sempre i nostri sorrisi, mentre coglievamo ogni sfumatura del nostro discorso pur non parlando la stessa lingua. I nostri sguardi complici, mentre parlavamo di ragazzi e amore. Le nostre mani, gesticolanti, mentre si parlava di moda. E la faccia super annoiata di Emin, che stava quasi per ordinare il terzo kebab per foderarcisi le orecchie.

Nel tardo pomeriggio andiamo ad incontrare Oğlum Berkay, con cui avevo già condiviso un pezzetto della mia vita. Erasmus anche lui in Estonia, mi ha accolto con un “finalmente hai mantenuto la tua promessa di venire in Turchia, Oğlum!” Dopo le chiacchiere di circostanza abbiamo deciso di passare un pomeriggio normale, ché la magia del ritrovo racchiusa in quella stanza era fin troppa. Abbiamo guardato This is Englandcercando di imitare l’accento inglese ed arrivando alla conclusione che i Turchi non saranno mai in grado di replicarlo, nemmeno lontanamente. Decidiamo che Shaun sia il nome più lovely sulla faccia della terra.

Emin se ne va a casa, io e Berkay a cena. Mangiamo una specie di pizza turca, dall’astruso nome, beviamo ayran e torniamo a casa. Ci mettiamo sul balcone a guardare le stelle, un paio di birre congelate e una ventina di sigarette, accese l’una dopo l’altra, fitte quanto il nostro filosofeggiare sulla vita. Finite le birre io mi do’ al té turco. Berkay allo Jagermaister.

Per una persona incapace a mantenere una fase REM per più di 20 minuti come me, il té turco è la miglior medicina. Sono poche le notti in cui riesco ad abbandonarmi totalmente ad un sonno profondo, e questa è una di quelle, nonostante Berkay abbia fatto la spola fra la sua camera e il bagno, grazie ai troppi bicchierini di elisir tedesco che si era concesso, brindando al mio arrivo e al ricongiungimento tra fratelli Erasmus.

Erasmus Brothers 2 years later – must have wasted and tired but super happy faces.

Oğlum, I cannot believe you are finally here! Now you will see how Turkish people will welcome you! My house will always be your house too. Next time, please take your parents, siblings and relatives all as well!” – Oğlum Berkay, August 2014

15 – DI COME CAMBIANO LE ABITUDINI ALIMENTARI

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Qualche giorno fa ho avuto voglia di mangiare pane e salame. Sono andata al supermercato convintissima di volere salame, da affettare e per farcirci un panino che poi avrei addentato con ignoranza, immaginandomi seduta sulle panchine di fronte al mio paninaro preferito. Poi però sono passata dal banco del pesce. Presa da una voglia improvvisa di salmone ho comprato quello. Del salame boh, mi sono proprio scordata.

Una volta tornata a casa mi sono fatta pane tostato, burro e salmone e, solo in quel momento mi è venuto in mente che io ero uscita per comprare del salame.

Mi sono pisciata addosso dalle risate per 10 minuti buoni, pensando all’evidente consonanza fra salmone e salame (robe da linguisti). Una lista di quanto siano cambiate le mie abitudini alimentari in 18 mesi di vita vissuta tra Estonia e Lettonia si è automaticamente snocciolata nel mio cervello.

 

  • Adoro mangiare la ZUPPA con la PANNA ACIDA. Qui mi aspetto un’espressione di disgusto da qualsiasi italiano mi stia leggendo ora. Se non avete un’espressione di disgusto sulla vostra faccia, beh… Fatevi qualche domandina.

    So che suona malissimo, soprattutto la parte della panna acida.

    Soljanka o borshch, con panna acida e una spolveratina di aneto e cipollotti. Paradiso per le mie papille.Immagine                                      Vi assicuro che, dopo un po’ di tempo, una zuppa di barbabietola o una zuppa di cetriolini sottaceto con panna acida da tanta soddisfazione quanta ne possono dare un’amatriciana o una carbonara.

 

  • Il mio frigo è pieno di BIRRA. Non mi è mai piaciuta molto, né ci vado matta ora. Però la bevo perché così fan tutti. Penso che una cosa analoga potrebbe succedere ad un expat in Italia: non gli piace il caffè, però lo assaggia. E vede che lo fanno tutti, ma proprio tutti, e tutto il giorno, a tutte le ore.

        “Caffè?” Massì dai, perché no.                                                                                                                                                                       “Alus?” Nu labi, davai.

       Alla fine, sia il caffè che la birra non sono altro che scuse per chiedere a qualcuno “ ti va di fare due chiacchiere?” e che il                   dialogo di fronte ad una tazzina o di fronte ad un boccale diventa immediatamente più piacevole.

 

  • Compro CETRIOLI SOTTO ACETO.

    E me li mangio pure di gusto, su una fetta di pane nero spalmata con panna acida. Se me l’avessero detto due anni fa, mi sarei strozzata con le mie stesse mani, rifiutando a priori una me-mangiante-cetrioli-sotto-aceto. Io, che aprivo l’hamburger dell’happy meal e mi inzozzavo le mani di ketchup pur di levare quelle due misere, sottili ed inermi fettine di cetriolino sottaceto.

        Ora nel mio frigo c’è una confezione famiglia di marineeti gurki. Si accompagnano bene anche con la vodka. Immagine

 

  • Mai più senza PANKUUKAS.

    Omelette. Crepes. Pancakes. Al formaggio, alla ricotta, con la carne macinata, con la marmellata. Alle patate, alle carote, alla cipolla. Condite con panna acida, of course.

        Li considero come la cotoletta nel frigo degli italiani. Onnipresente. 4 minuti in padella ( o 8 in forno) e mangi che è un piacere.

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  • Non mi meraviglio più del fatto che qui l’equazione CARNE = VINO ROSSO e PESCE = VINO BIANCO è un’incomprensibile assioma di origine sconosciuta. Sono giunta alla conclusione che non importa, che l’importante sta tutto nel bere vino (perché fa chic).

    Di contro, ho circa 15 diversi tipi di tè nella credenza. Certe volte mi scopro a ragionare sull’abbinamento tè/torta o tè/biscotti.

 

Più scrivo al riguardo e più mi rendo conto che non mangio più come mangiavo in Italia, e lo stesso vale per il bere. Non mi stupisce più nemmeno il fatto che qui ci siano circa 45 diversi tipi di maionese (li ho contati), né che il reparto alcolici occupi circa il 40% dell’area di un supermercato (inutile dire che è quello in cui si formano più ingorghi). Mi sono rassegnata al fatto che alla pasta venga destinato solo mezzo scaffale, da dividere con i noodles da infilare al microonde per 45 secondi (SIGH).

Una cosa però non è cambiata: ho penne, mezze penne, fusilli, rigatoni, spaghetti e bucatini nella credenza e i Lettoni che passano di qua rimangono shoccati da cotanta visione.

Non vedono le 25 birre in frigo (ne notano solo l’assenza, in caso non ce ne siano). Bypassano il chilo di panna acida. Aprono il cassetto 40×40 pieno di buste e miscele di tè e non fanno una piega quando si rendono conto che sarà un lavoraccio richiuderlo.

Vedono la pasta e non riescono nemmeno lontanamente a darsi una spiegazione plausibile del perché io ne abbia di diversi tipi. E, probabilmente, non lo capiranno mai.